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Articolo che è tornato di stretta attualità, dopo le indiscrezioni circa l’arrivo in cdm a giugno della riforma dell’università con appunto al suo interno un vecchio cavallo di battaglia liberale, l’abolizione del valore legale della laurea
Il ministro Gelmini, alcuni mesi fa, ha affermato che l’abolizione del valore legale del titolo di studio rappresenta il punto di arrivo di un progetto riformista. Un’indiscrezione de La Stampa segnala che l’avvio di questo processo dovrebbe arrivare in Consiglio dei Ministri, all’interno di un disegno di legge di riforma dell’Università (che comprende anche il commissariamento per gli atenei in rosso), all’inizio di giugno.
Cosa intendiamo per “valore legale del titolo di studio”?
E’ la garanzia d’idoneità, con effetto giuridico, che lo Stato riconosce a tutti coloro che superano esami o qualunque atto soggetto a valutazione, alla fine (e quindi a coronamento) di un corso di studio.
Detto così sembrerebbe sostanzialmente ingiusto abolire una legittimazione che tutela gli studenti.
Letteralmente però il valore legale del titolo di studio si riduce alla garanzia giuridica che ogni “pezzo di carta” offre a chi ne diventa titolare. In sintesi, prendere la laurea in una determinata università corrisponde esattamente ad ottenerla in un’altra università.
Dove è il problema? Il problema è che le università non preparano gli studenti allo stesso modo né assicurano, almeno, uno standard minimo comune dei livelli di apprendimento, anche se, per la legge, dovrebbe essere vero il contrario. Soprattutto per quanto riguarda l’accesso nella Pubblica Amministrazione: ci si riferisce ai concorsi pubblici, dove è richiesta la laurea, per i quali ogni titolo di studio, qualunque sia l’università nella quale ci sia laureati, ha lo stesso valore.
Oltre che per la PA, la laurea “legale” e non la formazione “reale” è un requisito di accesso alle professioni regolamentate: avvocati, ingegneri, architetti, commercialisti, farmacisti… Più che il percorso universitario affrontato, in questo caso, vale la capacità – dopo aver conseguito il titolo – di superare la barriera dell’accesso all’ordine, secondo logiche non sempre meritocratiche.
Un sistema del genere produce un effetto peggiorativo della qualità delle università italiane. Se ottenere una laurea presso un rinomato ateneo, dopo anni di impegno serio, corrisponde a conseguirla in un’università meno importante, dove magari il “pezzo di carta” lo regalano (per accrescere le immatricolazioni e quindi i finanziamenti statali), si determina, nella generalità dei casi, un disincentivo ad offrire standard formativi più alti.
Il valore legale parifica i percorsi universitari e quindi disabilita la concorrenza tra le università.
Ciò produce notevoli distorsioni e danni a tutto il sistema, portando le università a non avere alcun incentivo a scegliere docenti veramente preparati rispetto ai raccomandati del barone di turno.
Tornando alla pubblica amministrazione, è innegabile che un panorama del genere non le consente di selezionare i migliori e ciò comporta un’inefficienza complessiva dovuta, almeno in parte, anche all’impreparazione di certi assunti.
E’ ovvio che questo non accade nei settori privati dove vengono reclutati candidati in base alla preparazione e secondo criteri legati anche ai ranking internazionali delle università dalle quali provengono.
Insomma l’abolizione del valore legale riuscirebbe a creare un circolo virtuoso, basato sulla meritocrazia che è una parola piuttosto abusata, ma una scelta spesso impraticabile con le regole attuali.
Andando in questa direzione, ad essere danneggiate sarebbero finalmente le università improduttive o quelle che, invece di migliorare la propria credibilità, hanno fatto proliferare in maniera assurda facoltà, corsi di laurea e sezioni distaccate con uno sperpero vergognoso di risorse statali. Insomma, l’abolizione del valore legale della laurea è un passo essenziale per riportare l’ università italiana a livelli di efficienza e eccellenza.
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